Era un amico
d’infanzia. Abitava nel mio rione, Porta Dipinta in Città Alta, proprio davanti
alla Parrocchia di Sant’Andrea.
Era un
ragazzino simpatico anche se un poco timido.
Aveva un
gran pregio,: una voce degna di un Coro di voci bianche.
Era parte
della nostra “banda”, e partecipava alle nostre bravate da ragazzini.
Anche lui,
come tutti i ragazzini di Porta Dipinta, frequentava il campetto della Fara
nelle interminabili partite di calcio pomeridiane. Non ricordo in quale ruolo
giocasse, ma, nelle nostre partite, l’unico che si distingueva chiaramente era
il portiere; per tutti gli altri era unicamente un assalto alla porta
avversaria.
Durante
l’estate spariva per circa un mesetto. Diceva che andava da mamma, e noi non
capivamo ma non facevamo domande.
Poi qualche
ragazzo più adulto ci tolse il dubbio.
Vincenzo era
stato adottato dalla famiglia con cui viveva. La vera madre abitava in un altro
paese, sempre in Lombardia, ma molti chilometri fuori Bergamo. E il mese di
assenza lo trascorreva con lei.
Al rientro
non raccontava nulla, continuando nella sua vita normale in nostra compagnia.
A proposito
di quel pregio, di cui accennavo all’inizio, ricordo un giorno che mi fece visita
a casa perché ero ammalato, credo influenzato.
Si sedette
accanto al letto per raccontarmi le recenti avventure della “banda”.
Al termine
delle sue informazioni gli chiesi un favore: «Cantami una canzone!».
Arrossì e
senza guardarmi intonò la canzone “Mamma” gorgheggiando come Luciano Tajoli.
Al termine
mi salutò e uscì.
Crescendo ci
si perse di vista, poi mi trasferii in Bergamo Bassa e non ebbi altre occasioni
per incontrarlo.
Sono
trascorsi più di settant’anni e mi rivedo in quella cameretta, con accanto
Vincenzo C. che canta la sua canzone dedicata alla (sua) mamma.
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