Le parolacce.

 


Dopo il matrimonio mi trasferii in via Stelvio, una laterale di via Ponchielli.

Accanto alla mia abitazione c’era la Trattoria del “Gioan 'stench”, una delle ultime trattorie di Bergamo con il gioco delle bocce.

Attorno alla trattoria un largo spazio con un orto ben curato, due tavoli in granito grezzo per gli avventori, alberi di gelso che ombreggiavano e … due campi di bocce.

Uno, accanto alla parete di un’abitazione, era utilizzato per le normali competizioni bocciofile, l’altro per il gioco del tiro al “boccino”.

In buona sostanza si trattava di centrare il boccino con un tiro al volo.

Quest’ultimo campo confinava con il giardino di casa mia e separato unicamente da una siepe, non molto alta,  di bosso.

Quando le mie due figlie, la prima di sei anni e la seconda di tre, scendevano, in primavera o in estate, per giocare, erano attratte dal vocio dei giocatori che infervorati cercavano di centrare il boccino posto proprio in prossimità della recinzione.

Non era inusuale che a ogni sbaglio, volassero commenti non propriamente “urbani”, tutt’altro:  le parolacce, o meglio dire le bestemmie, erano il contorno sonoro.

Mi capitò, in seguito di sentire tali parolacce in casa quando le mie due bimbe, occupate nei loro giochi, le utilizzavano per sottolineare azioni di gioco non condivise.

Il “porco d..” e altre che non nominerò per decenza, erano l’inizio di zuffe e reciproche tirate di capelli.

Poiché tale lessico non era propriamente ospite in casa nostra e men che meno utilizzato nella scuola materna da loro frequentata, feci subito mente locale alla loro curiosità nell’assistere al gioco del tiro al boccino, unico luogo dove la “convenzione” del politically corret era sconosciuta.

Da quella mia, tardiva, intuizione, prima di lasciar scendere le bimbe in giardino era d’uopo controllare che la pace e la tranquillità e il silenzio  regnassero su quel campetto di bocce del “Gioan ‘stench”!

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