Il viottolo di campagna.

 


Iniziava dopo un passaggio a livello della linea ferroviaria chiuso da sbarre incernierate su due plinti di ferro.

Transitavano solo i mezzi agricoli che si recavano nella lunga distesa di campi sino alla periferia della città.

La casa dei miei parenti, in paese, distava un centinaio di metri da quel passaggio a livello e dall’inizio dei miei “fuoristrada”.

Una strada sterrata, che si snodava, tra un possedimento e un altro sino alla collina dove sorgeva la Colonia elioterapica di Longuelo.

Il fischio della vaporiera in arrivo sulla strada sterrata era il saluto che ricevevi all’ingresso del mondo colorato.

Dal passaggio a livello iniziavano le coltivazioni di frumento e granoturco, separate da canaletti per l’irrigazione e con il viottolo, in terra battuta, costeggiato da Gelsi.

Il Gelso, un albero molto diffuso per il motivo che le foglie erano cibo per i bachi da seta, allevati con cura e i cui bozzoli erano venduti alle filande della zona. Molti contadini avevano stanzoni adibiti al loro allevamento e li potevi incontrare verso sera con le carriole piene di foglie e rami di Gelso.

Nei primi mesi estivi i campi di frumento erano un tripudio di colori: papaveri rossi e fiordalisi azzurri si mescolavano al giallo delle spighe.

A fine giugno, dopo la trebbiatura del frumento, i campi rimasti con le sole stoppie, erano punteggiati da stormi di passeracei che beccavano i pochi chicchi, rimasti sul terreno.

Poi iniziava a crescere il granturco e man mano le settimane si susseguivano potevi assistere all’ingrossamento delle pannocchie sino a veder uscire dalla sommità quella “barba” marrone che annunciava il tempo di raccolta.

Lo confesso: qualche pannocchia la infilavo dentro la camicia per abbrustolirla la sera con gli amici sul fuoco alla Fara, al chiarore della luna.

In buona sostanza ogni mese presentava una novità e tra queste, quella più gradita da me, era la maturazione delle more bianche o nere dei Gelsi; era una scorpacciata che era ripagata, purtroppo, da movimenti intestinali poco piacevoli.

La golosità superava anche questo inconveniente.

Mentre gli amici andavano a far tuffi e nuotate in piscina o mettere i piedi all’ammollo nella Morla,  in Valverde, io inforcavo una vecchia e malandata bicicletta da donna e iniziavo il mio viaggio ecologico.

Pedalare sul quel viottolo significava uscire dalla quotidianità cittadina.

La bicicletta che utilizzavo era un vecchio rottame arrugginito, recuperato in qualche cantina.

Con quella mi ero esercitato sul campo della Fara dopo averla, in qualche modo, sistemata.

Era la ruggine a tenerla ancora insieme anche dopo i miei tentativi di renderla presentabile.

I freni erano a “bacchetta”, in altre parole collegati ai pattini sui cerchioni, da asticelle di ferro che, tramite giunti arrugginiti pure loro, li attivavano. Nonostante li oliassi sistematicamente a ogni suo utilizzo, il risultato era sempre uguale.

Rallentavo quasi unicamente smettendo di pedalare.

Per questo motivo avevo iniziato, sin dalla prima volta, a utilizzare quel viottolo di campagna quando mi recavo a far visita ai parenti. 

E da quella prima volta non avevo più smesso.

Con l’andar del tempo e dell’urbanizzazione nell’hinterland della città, credo che di quel viottolo tra i campi di frumento, colorati dal rosso dei papaveri e l’azzurro dei fiordalisi, e il fischio del treno sfrecciante sulla strada ferrata, sia rimasto solo nei miei ricordi.

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