Un tentativo a vuoto.

 


La giornata non era bella ma la voglia di montagna superava ogni ostacolo.

La zona prescelta era quella del Rifugio Curò con l’auspicio che il giorno successivo, tempo permettendo, ci consentisse di raggiungere la vetta del Gleno.

Partiti nel pomeriggio in moto, e raggiunta Valbondione, c’incamminammo lungo la mulattiera tra le prime ombre del crepuscolo anticipato dalle basse nuvolaglie che nascondevano la cascata.

Il bosco era silenzioso, ovattato e con ancora presenti le gocce di pioggia del pomeriggio, ma questo presagio non ci scoraggiò.

Procedevamo, Michele ed io, con un buon passo cadenzato, non avevamo alcuna fretta, avremmo raggiunto il rifugio con un buon margine sull’ora di cena.

Superato l’impianto della teleferica che, a quel tempo, era utilizzata per i rifornimenti al Curò, decidemmo di salire dalla scorciatoia, poiché macchie di neve, delle ultime slavine, occupavano parte dei tornanti della mulattiera.

Il canalino era umido e scivoloso e lo superammo con molta attenzione.

Il Rifugio era deserto, o quasi, solo altri tre avventurosi erano seduti a un tavolo discutendo sull’itinerario del giorno successivo.

Ci accomodammo anche noi con l’improvvisata compagnia esprimendo l’intenzione, salvo situazioni meteo molto negative, di raggiungere la vetta del Gleno salendo dalla valle del Trobbio e superando il ghiacciaio.

I tre escursionisti chiesero se potevano aggregarsi  alla salita e, naturalmente, acconsentimmo.

Il mattino successivo qualche schiarita con sprazzi di sole, ci fece sperare in un’evoluzione positiva della giornata e, nonostante le pessimistiche previsioni del gestore del rifugio, c’incamminammo fiduciosi.

Tra schiarite e annuvolamenti arrivati ai piedi del ghiacciaio, poco oltre i Corni Neri, ci raggiunsero nubi basse che con folate si alternavano coprendo il resto della salita.

I tre escursionisti che si erano aggregati, tra i quali una ragazza, iniziarono ad avere dubbi sulla meta prefissata e decisero, con una conoscenza approssimativa, di scollinare verso la Val Cerviera. passando dalla cresta alla destra del ghiacciaio, a quel tempo ancora tanto ampio da lambirla.

Cercai di sconsigliarli sapendo che il versante dove sarebbero dovuti scendere, era molto scosceso con imprevedibile balze e stretti canalini.

Giacché, nonostante i miei avvertimenti, non fui ascoltato, dopo essermi consultato con Michele, il mio compagno di escursione, decisi di accompagnarli per essere di eventuale aiuto in caso di difficoltà.

Difficoltà che si presentarono inevitabilmente dopo il superamento della cresta.

La prima a entrare in crisi fu la ragazza che di fronte ad un canalino erboso si rifiutò di proseguire.

I suoi due compagni, più inesperti di lei, non sapevano che pesci pigliare e mi guardarono con uno sguardo interrogativo.

Lentamente e con molte precauzioni raggiunsi la tremebonda e passo dopo passo le indicai dopo appoggiare piedi e mani per non scivolare nel vuoto.

Balza dopo balza, canalino dopo canalino, raggiungemmo il sentiero che dal Recastello scendeva verso la Val Cerviera e il rifugio Curò.

Noi due ci remammo presso il laghetto a consumare le nostre provviste alimentari, i tre compagni d’escursione, alquanto provati, decisero di scendere al Rifugio per il pranzo e, poi, a valle.

Scopersi, tempo dopo, che la ragazza, universitaria, sarebbe diventata la cognata di un amico e che uno dei due maschi, un docente, era impiegato alla Dalmine nella Scuola di addestramento aziendale.

Conclusione: non avevamo raggiunto la meta prefissata, ma avevamo solidalmente espresso lo spirito dell’alpinista nei casi di altrui necessità.

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