Il "Lancia"


Questo era il nome di battaglia di Pietro Orsanigo, un giovane che nell’autunno del 1943, per sottrarsi alla chiamata alle armi, imposta dal Governo di Salò, aveva deciso di rifugiarsi in montagna.

Per qualche giorno si era nascosto nella soffitta di una vecchia abitazione dello zio, poi, dopo una retata alla quale era stato spettatore, dietro l’abbaino, e aver assistito alla brutalità del gruppo di camice nere nel perquisire gli appartamenti prospicienti la piazza del paese, era tornato nella sua abitazione, una cascina poco fuori il paese, aveva preso lo zaino, alcuni indumenti invernali, e si era diretto verso le montagne.

La retata era stata brutale.

Il manipolo di fascisti, cantando a squarciagola, aveva iniziato ad abbattere porte con il calcio dei moschetti  e, tenendo sotto mira gli abitanti, avevano fatto uscire dalle abitazioni uomini, donne e bambini.

Il parroco, uscito dalla chiesa, era corso verso il capo manipolo, un tizio con la barba a pizzetto che impartiva ordini a destra e a manca, scongiurandolo di evitare soprusi verso i vecchi, le donne e i bambini.

In compenso aveva ricevuto uno schiaffo e messo in riga, contro il muro. Assieme a tutti gli altri.

Tutti gli uomini vennero caricati sugli autocarri, vecchi e giovani, e i motori furono avviati.

Un ragazzo, aveva tentato di sottrarsi alla cattura, cercando la fuga in un vicoletto accanto alla chiesa, ma il suo tentativo fallì miseramente con una raffica di mitra del capo fascista, l’uomo dal pizzetto, che lo raggiunse mortalmente nella schiena.

Pietro Orsenigo, il Lancia, aveva giurato di non dimenticare quel pizzetto nero  e vendicare, all’occasione quel barbaro e inutile omicidio: il ragazzo non aveva più di sedici anni.

Il soprannome gli era stato appioppato da un suo compaesano durante una discussione, una sera all'osteria.

Pietro era fanatico del modello Aprilia, messa in commercio dalla casa automobilistica nel 1939 e, sosteneva, che era molto più bella e veloce delle pari cilindrate Fiat dell’epoca. 

La discussione era terminata alla pari: ciascuno era rimasto sulla propria idea anche a causa degli abbondanti fumi alcolici dei due giovani, e il sopranome gli era rimasto.

Fu così che quando si presento al primo gruppo di partigiani che incontrò in valle, alla richiesta di declinare il suo nome rispose.”Lancia”.

Quella sera, la banda partigiana si era rifugiata in una cascina in attesa di un previsto lancio di rifornimento alleato.

I giovani partigiani, avvolti in vecchie coperte portate da casa, attendevano seduti nell’edificio, sonnecchiando, l’ora per raggiungere lo spiazzo, poco più a monte, visibile all’aereo che avrebbe paracadutato viveri e armi.

Anche Leone, un suo amico d’infanzia, si era appisolato in un angolo e, con un respiro ansimante, disturbava il perfetto silenzio che regnava nel piccolo locale.

Pietro, ovvero Lancia, era uscito tenendo ben nascosto con le mani l’ultimo mozzicone di sigaretta e, nello stesso tempo, osservando i filari di vite che degradavano verso una valletta.

L’unico rumore era il gorgoglio dell’acqua nel piccolo torrente di fondo valle. 

La luna, velata, non rischiarava molto l’ambiente e distinguere movimenti estranei era molto difficile.

Probabilmente era una pietra smossa che mise sull’allarme Pietro.

Spense velocemente il mozzicone, imprecando mentalmente per aver perso l’ultima boccata, e rientrò velocemente in casa per avvisare i compagni che qualcosa all’esterno si era mosso.

Tutti scattarono in piedi imbracciando le armi che ciascuno aveva in dotazione e pure Leone imbracciò il suo Sten ricevuto dall’ultimo lancio paracadutato, uscì dalla cascina nel buio della notte.

A raggiera, senza far rumore, il gruppo si mise in posizione con gli occhi puntati verso la valletta, oltre i filari di vite con i tralci ormai, quasi privi di foglie.

Non tardarono molto ad avvistare alcune ombre che cercavano di salire il pendio.  Sebbene la velatura della luna impediva una buona visuale, contarono una decina di persone che a fatica, cercando di non far rumore, si muovevano in gruppo. Sicuramente pensavano di cogliere la banda nel sonno e non scelsero, precauzionalmente, la formazione a raggiera.

I primi a mettersi in posizione di difesa furono il Lancia e Leone, quest’ultimo aprì il fuoco con una sventaglia del suo mitragliatore, seguito dagli altri compagni che via via avevano raggiunto la propria posizione con i moschetti che crepitavano di spari.

Il manipolo di camicie nere si fermò, colto di sorpresa, e acquattandosi tra l’erba iniziarono a rispondere al fuoco.

Poi, comprendendo che l’agguato era fallito iniziarono lentamente a indietreggiare.

Il Lancia, visto il tentativo di ritirata del nemico, si alzò e, brandendo una bomba a mano si mosse verso valle per lanciarla. Leone lo sollecitò urlando “lancia” invitandolo, in tal modo a togliere la sicura e gettare la bomba tra i fascisti.

Il Lancia, sollecitato da quell’urlo mentre lanciava l’ordigno, scivolando in discesa, inciampò nel filo metallico di un filare e, mentre la bomba esplodeva tra il manipolo di camicie nere, cadde faccia avanti per alcuni metri, rimanendo intontito.

Quando, dopo pochi istanti si riprese, riaprendo gli occhi la prima cosa che gli apparve, fu un volto con un pizzetto, il famoso" pizzetto" del capo manipolo della piazza, quello che con un colpo di fucile aveva freddato il ragazzo in paese.

Il volto esanime, gli occhi sbarrati, e la striscia di sangue sul collo dimostravano chiaramente il suo  “trapasso” corporale.

Il resto dei fascisti, privi del capo, si era dileguato nel boschetto a valle; la battaglia era terminata ma i partigiani per contro persero il lancio paracadutato poiché non fecero in tempo a raggiungere la radura e accendere i fuochi di segnalazione. E così il Lancia rimase privo delle sue amate e sospirate Chesterfield.

Nell’inverno del 1944, le formazioni partigiane si rifugiarono in montagna in attesa che in primavera si potessero riprendere le operazioni contro le truppe nazifasciste.

Anche la banda di Lancia e Leone trascorse l’inverno in alta valle; qualche scaramuccia a valle per rifornirsi, lunghi e freddi giorni intabarrati nelle baite e poi…. la primavera, e con quella la Liberazione.

Nel primo paese che incontrarono, sequestrarono un camion, un Lancia Serie 464 in dotazione all’esercito Italiano e, sventolando bandiere tricolori, si fermarono proprio nel paese del “Lancia”.

Pietro scese dal camion tra gli abitanti che festeggiavano i partigiani e, lentamente, si diresse verso il vicolo, dove il ragazzo, nell’ottobre del ’43, era stato ucciso dal capo manipolo fascista. Un piccolo mazzo di fiori era appoggiato al muro.

Si fermò, si fece il segno della croce e sottovoce gli rivolse la frase: « Sei stato vendicato ma non sono orgoglioso di aver ucciso il tuo assassino! ».

Poi ritornò tra i compagni, risalì sull’autocarro e cantando ripresero la via verso la città. 



 

 

 

 

 

 

 

 

Nessun commento:

Posta un commento